Redazione

Se si ha il coraggio di riavvolgere il nastro e di osservare con attenzione il secondo tempo del film sul Covid non si potrà fare a meno di notare che la progressione dell’epidemia ha fatto venir fuori tutte le contraddizioni con cui ha dovuto fare i conti finora il nostro sgangherato sistema politico-istituzionale. Infatti, questi giorni tragici e di grande confusione, ci hanno fatto capire, nonostante tanti e prestigiosi osservatori politici non se ne siano accorti, che il coronavirus oltre all’economia e a tante vite umane, stia facendo crollare un sistema inefficiente perché vecchio come il cucco, la cui data di nascita si può far risalire al 1860, quando, con l’Unità d’Italia, i piemontesi fecero l’errore d’imporre alla nuova nazione un modello politico-istituzionale di tipo napoleonico, quindi basato su un centralismo esasperato, e non uno stato federale che tenesse conto delle specificità di territori completamente diversi l’uno dall’altro sul piano storico, culturale, economico e soprattutto sociale. Ma non è finita: il colpo di grazia a un sistema già traballante fu inferto dal secondo dopoguerra, quando a prevalere, nella mente di chi scrisse “la costituzione più bella del mondo”, fu una visione politica che mise al centro dell’impianto politico-istituzionale la regione: ente del tutto artificiale e estraneo alla nostra tradizione storica, che aveva conosciuto l’autonomia comunale e le province napoleoniche. Ne venne fuori un caravanserraglio istituzionale senza precedenti, che prima o poi sarebbe esploso in maniera drammatica, scatenando, come sta avvenendo in questi giorni, migliaia di conflitti di attribuzione tra stato e regioni, per via delle competenze ripartite, in materie importanti come la sanità, resi ancora più drammatici dalla riforma costituzionale del 2001, che hanno paralizzato la vita del paese. Inoltre, non va dimenticata la burocratizzazione della nostra vita, che ci impone di chiedere sempre un’autorizzazione o un permesso a un ente pubblico per fare qualunque cosa, dovuta al predominio di forze politiche fortemente stataliste, che ha ingessato l’economia e la società e ha fatto crescere in misura notevole la corruzione. Infine, e non da ultima, la nostra democrazia, che per via di uno stato pervasivo, che ficca il naso dappertutto, è diventata una democrazia zoppa, basata su un’acquisizione del consenso non libera ma condizionata dal diritto che diventa favore e quindi dalle clientele. Ecco, ci si può girare attorno quanto si vuole ma la storia recente del nostro paese e del Meridione in particolare, ci ricorda che la leva che aziona il cambiamento la si trova nelle riforme liberali del sistema politico-istituzionale, che mettano al primo posto il federalismo concorrenziale, la sburocratizzazione del paese, attraverso un forte ridimensionamento dello stato a favore dei privati, una concezione di tipo popperiano della democrazia, intesa come governo sottoposto al controllo del popolo e soprattutto il linguaggio politico, che dev’essere quello della verità, che di fronte alle inefficienze che l’epidemia da coronavirus sta rendendo evidenti non è condizione sufficiente per sconfiggerle ma è condizione necessaria per non nascondersi e provare finalmente ad affrontarle. Ai politici, oggi, non si chiedono miracoli, ma semplicemente di fare tutto ciò che serve per non restare ostaggio dei propri dogmi e per adattarsi a un mondo che cambia velocemente. Il modello liberale, in fondo, è tutto qui.