
In questi giorni, in cui si dovrebbe riflettere sul senso e il significato della vita, in molte discussioni, anche pubbliche (ultima un'intera puntata di Tutta la città ne parla di Radio Tre), si parla dei giovani, del loro ritrovato impegno politico e del loro futuro. Peccato, però, che nei dibattiti che abbiamo finora ascoltato nessuno si sia sorpreso del fatto che stando a contatto con le folle oceaniche di giovani che, in questo periodo, possiamo incontrare solo in qualche locale alla moda, si respiri un forte senso di vuoto. E’ una disattenzione che preoccupa, perché vuol dire che questo paese ha forse perso il senso della realtà e si avvia inesorabilmente verso il baratro. Così come preoccupa che, mai come in questo momento, in una così grande fetta della popolazione, da sempre considerata motore del nostro avvenire, si notino poche idee, poca voglia di fare e soprattutto un forte disinteresse verso il lavoro, che dalle nuove generazioni è visto con una certa avversità, come se il lavoro avesse ritrovato il suo significato originario, etimologico, di “tortura”. E come potrebbe, il giovane di oggi, avere interesse per il lavoro se spesso vive del patrimonio di famiglia, magari messo insieme grazie alla spesa pubblica a debito, senza far nulla, ingrossando così il popolo dei neet, quelli che né studiano né lavorano, con la ragionevole aspettativa di continuare a beneficiarne alla dipartita dei genitori. E’ un “disinteresse volontario”, come l’hanno definito alcuni studiosi, conseguenza della spaccatura che si è creata, nella nostra società, tra opportunità disponibili e aspettative alimentate dal sistema educativo e dalla famiglia (secondo cui un giovane può impegnarsi solo se ha un lavoro adeguato al suo stato sociale e al suo titolo di studio, altrimenti meglio stare a casa a spese dei genitori). Ecco perché, da questo punto di vista, il nostro paese dà prova di essere davvero in pericolo, soprattutto quando ci si accorge che questi giovinastri disprezzando il lavoro e l'impegno, e abbandonandosi al piacere, anche al piacere di piccole cose, banali, come se il piacere fosse la loro prima e unica preoccupazione, non concorrono più nell’eccellenza del loro paese, che così finisce nel baratro della mediocrità. E’ un disprezzo angosciante, che non ha qualcosa di indirettamente cattolico (il lavoro è il salario del peccato), aristocratico (il lavoro è riservato ai servi e al popolino) o anticapitalistico (il lavoro salariato è il prolungamento dello schiavismo attraverso altri mezzi) come avveniva in passato, ma, in un’epoca più grassa e plebea, e ovviamente meno colta e intelligente, come la nostra, ha a che fare con l’incapacità e la scarsa voglia di tanti giovani d’impegnarsi, come bambini viziati, nel mondo del lavoro a cui, spontaneamente, dicono di no, preferendogli il girovagare, lo svago, il divertimento, che comunque sono garantiti dal benessere familiare. Infatti, quante volte abbiamo sentito dire, ad alcune di queste teste di cazzo, “che bella giornata, peccato regalarla al lavoro”. E ciò a dimostrazione della loro incapacità a capire che il lavoro è il solo in grado di formarci trasformando il mondo: non è soltanto sofferenza, tempo sprecato, noia, è un qualcosa che ci lega agli altri, ci regala la soddisfazione del dovere compiuto, ci rende utili. Ciò che sta sparendo, è l’amore per l’opera ben fatta che hanno gli artigiani, è la visione classica del lavoro come paziente maturazione e cooperazione armoniosa con il tempo per migliorarsi nella propria disciplina. Al posto di tutto questo, predomina la superficialità, l’idea del lavoro come di un qualcosa di fastidioso, di cui bisogna liberarsi il prima possibile alla stregua di un oggetto da gettare via, quindi lavoretti che si accettano o si abbandonano senza passione e sentimenti come se il lavoro fosse diventato un allegato dell’esistenza, giusto un qualcosa da fare per avere un reddito, anche piccolo, da aggiungere a quello familiare, per garantirsi lo svago, anzi lo sballo. Si ha la sensazione che le generazioni precedenti, che lavoravano molto, e senza pensare per forza al tempo libero e al divertimento, amassero di più il lavoro che facevano, e ne andassero fieri. Quel lavoro produceva tra l’altro una certa cultura. E’ il lavoro che è cambiato, o sono i giovani a essere cambiati? La formazione di un’intera generazione dedita al piacere, concentrata esclusivamente sul divertimento, sui consumi, è una catastrofe epocale realizzata in nome delle migliori intenzioni, quelle di certi genitori coglioni e irresponsabili, che, però, ci fa dimenticare che una vita appagante risiede nell’impegno, nello spirito di sacrificio, anche nello studio, che fortificano, e non nel riposo e nell’indifferenza che indeboliscono. Ecco perché, con questi chiari di luna, dove cazzo pretendiamo di andare se non verso il baratro?