Fino a poco tempo fa, chi non sapeva che fare, nella vita, apriva un bar, mentre oggi, che i bar sono in estinzione, apre una pizzeria. Che da almeno dieci anni a questa parte improvvidi e improvvisati pizzaioli, forse per renderla più attrattiva, chi lo sa, usano definire contemporanea o addirittura gourmet (magari senza neanche sapere cosa significhi), poiché il gourmet, dicono, va di moda, ha un suo fascino, è modernità. Una furbata, forse dettata dall’idea di dare dignità a un cibo plebeo, allo scopo di nobilitarlo e renderlo così più appetibile agli occhi dei clienti più esigenti, quelli da rubare ai ristoranti per capirci, che quando va bene significa che riesci a mangiare una pizza che non ti rimane sullo stomaco per giorni, quando va male, invece, che la paghi l’iradiddio, magari bestemmiando e rimpiangendo di non essere andato anche nella più vile delle trattorie. È un fottuto rompicapo, da cui è impossibile uscire, perché bisognerebbe dire la verità, impensabile nel campo della ristorazione, e cioè che esistono solo due categorie di pizzerie: la prima in cui vengono servite pizze passabili, che di solito sono quelle classiche che tanto ci mancano (infatti, io non capisco cosa si aspetti a rivalutarle), la seconda in cui ti sbattono davanti pizze immangiabili, come tante contemporanee e gourmet o addirittura rivisitate (in cui spesso trovi impasti e abbinamenti imbarazzanti, cui solo i pochi geni della cucina, e della pizza, possono dare equilibrio), che vorremmo ci mancassero. Per cui, oggi, se si vuol mangiare davvero una buona pizza, magari una di quelle enormi da condividere con gli amici in assetto conviviale, non si può fare altro che aspettare tempi migliori, quando finalmente passerà questa moda di appiccicare dappertutto etichette gourmet e contemporanee e si tornerà alle vecchie insegne (del tipo: Donna Rosa, da Michele, da Donna Concetta) e alla tradizione, forse prima di quanto si pensi, perché si sa che a lungo andare il troppo stroppia.