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Il dibattito sulla droga che ha avuto luogo, nelle ultime settimane, su questo giornale, ha spinto molti nostri lettori a chiederci se facciamo parte della schiera dei “realisti”, favorevoli alla liberalizzazione delle droghe (per sconfiggere la criminalità e per evitare la marginalizzazione degli stessi tossicodipendenti), o degli “idealisti”, quelli per cui ogni droga è dannosa e che bisogna in tutti i modi estirpare questa piaga sociale.
Noi, essendo libertari, apparteniamo alla prima categoria, cioè a quelli che le droghe le vogliono libere, ma non in ragione di argomenti utilitaristici, nel senso che il proibizionismo ha fallito perché non è stato in grado di togliere dal commercio le sostanze assunte dai tossicodipendenti, favorendo così le organizzazioni criminali e marginalizzando ampi settori della società.
Nossignore. Noi siamo antiproibizionisti per ragioni di principio, che ci spingono a guardare al diritto naturale, e cioè al fatto che la guerra alla droga poggi sulla violazione di alcuni cardini fondamentali di una società libera, in cui combattere il consumo delle droghe significa allontanarsi dalla tradizione giuridica, che ha sempre distinto tra vizi e crimini.
Quanti offrono sul mercato un prodotto o un servizio – che si tratti anche di droga o prostituzione – non operano in maniera aggressiva. Il loro comportamento può essere moralmente riprovevole senza che questo debba comportare una qualche repressione. In fondo, il Dio creatore della tradizione biblica ha fatto gli uomini liberi e questa loro autonomia d’azione va limitata solo se nell’agire dei singoli si rinviene una qualche violenza effettiva su altre persone.
Per giunta, la lotta alla droga è una decisa limitazione dei diritti di proprietà (di chi vende e di chi acquista), accompagnata dall’imporsi di un potere “paternalistico” che si sente autorizzato a definire ciò che è bene e ciò che è male. Il puritanesimo di Stato si ammanta di moralità, ma in effetti produce conseguenze assai deleterie anche di ordine etico.
Non soltanto la vita morale tende ad appiattirsi sui precetti di Stato e su una sorta di religiosità secolare, ma questo espandersi della funzione del potere e del sistema legale finisce per togliere spazio alle agenzie morali di formazione spontanea e libera accettazione. Tanto più lo Stato definisce qual è il confine tra il bene e il male in tema di droga, quanto più è normale che esso si candidi a decidere anche quale deve essere la nostra visione della vita, della sessualità, della famiglia, della spiritualità.
In questo senso sono proprio quanti non guardano allo Stato come all’ultima divinità della storia occidentale che devono nutrire più di una perplessità di fronte all’autoritarismo di chi impedisce che un proprietario ceda sostanze in suo possesso a un altro proprietario.
Invece che pretendere che due adulti non commercino tra loro qualche spinello, va difesa con forza l’autorità familiare, perché è giusto che un padre pretenda che nessuno ceda al proprio figlio (minore) sostanze che egli non vuole che consumi. È un po’ il confine che esiste tra la facoltà – riconosciuta in ogni società libera – di liberi rapporti sessuali tra adulti consenzienti e la proibizione, invece, dell’adescamento di minori e della pedofilia.
In fondo, la lotta dello Stato al libero consumo della droga muove dalla dimenticanza del principio fondamentale della cultura liberale, e non solo di quella: l’idea che l’altro va rispettato e che solo la necessità di impedirgli che aggredisca qualcuno ci autorizza a usare la violenza nei suoi riguardi.
Lo Stato ci considera soggetti da organizzare, manipolare, plasmare a suo piacere, ma una cultura centrata sulla dignità della persona non può accettare questa prospettiva e ciò che ne discende.