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Il tradizionale Rapporto della Svimez, sull’economia del Mezzogiorno, ancora una volta redatto su basi statistiche, non ci dice niente di nuovo. Ci mostra il solito Sud senza crescita, con consumi e produzione ai minimi, povertà incombente e sempre più diffusa, desertificazione industriale e disoccupazione record.
Quello che invece il Rapporto non dice, ma è evidente, è che se il Sud ancora regge, nonostante dati terrificanti, è perché esistono un Nord ricco e produttivo che lo mantiene e soprattutto un “nero” da paura, fatto da evasione fiscale e economia criminale che sono cresciute a dismisura. E a dimostrarlo bastano alcuni indicatori (statistici), quali le giacenze medie dei conti correnti che sono il 30% superiori a quelle del nord, il numero di auto di lusso immatricolate pro capite triplo che al nord, i metri quadrati di abitazione pro capite doppi che al nord.
Così come non dice che a questo punto della situazione si è arrivati dopo anni e anni, tutti quelli del secondo dopoguerra, di “politiche straordinarie per il Mezzogiorno”, di “interventi a pioggia”, di ministri, Casse e enti pubblici appositamente creati per risolvere quella che con enfasi è stata chiamata la “questione meridionale” e che oggi, per fortuna, fa quasi vergogna a chiamare tale. Enti che spesso, proprio come lo Svimez, sono inutili e costosi carrozzoni che hanno come statuto quello di fornire expertise ad uno Stato imprenditore e interventore che ormai non ha più, e di nuovo per fortuna, molte cartucce da sparare. Il fallimento del Sud è anche prima di tutto il fallimento del meridionalismo, di quello politico e di quello intellettuale, di tutti coloro che, in buona o più spesso in cattiva fede, hanno creduto che lo Stato assistenzialista avrebbe potuto dare al Sud con la ricchezza (che fra l’altro è stata vista da pochi) quello che non aveva e continua a non avere: un’anima.
Lo Stato non poteva dargliela l’anima al Sud perché, come è ormai chiaro, esso non è la soluzione ma il problema. Non solo la “questione meridionale” non è stata risolta, ma si è anzi aggravata. E non se ne vede via d’uscita: alla desertificazione industriale si accompagna oggi una vera e propria desertificazione morale. In questi anni, infatti, proprie certe politiche hanno contribuito a rinforzare sempre più quei mali atavici, quei limiti umani e antropologici, dell’essere meridionali: il rivendicazionismo astratto; il chiedere che siano gli altri, e in primo luogo lo Stato, a risolvere i nostri problemi; il credere che sia un nostro diritto avere tutto e di più, e anche a costo zero perché tanto paga Pantalone. Perché poi, alla fine, sono gli altri che devono intervenire, e di corsa, non noi che dobbiamo rimboccarci le mani e darci da fare. È questa mentalità non qualcosa di atavico o genetico (basti solo pensare allo spirito intraprendente che tanti meridionali emigrati nel mondo sanno far venir fuori) ma un prodotto storico e politico. Una condizione dell’animo che, possiamo dire, è stata artificialmente promossa e accarezzata, in una sorta di pedagogia all’incontrario, dalle misere classi dirigenti che ha espresso il Sud negli anni del dopoguerra. E che, ahimè!, continua ancora a esprimere.
È in questo cortocircuito o circolo vizioso fra la politica della spesa pubblica e l’incapacità dei più di uscire dalla mentalità rivendicazionista che i meridionali si sono, a mio avviso, giocati il loro futuro. È qui la spiegazione dei dati. Ma è anche questa la ragione di quello scetticismo morale che poco mi lascia sperare quando penso alla terra in cui sono nato.