Editoriali

Quando il dissesto sta nelle menti

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Mai si è vista nell’ultimo decennio un’abdicazione totale dello stato (inteso come enti pubblici) dalle proprie responsabilità, anche minime, in fatto di tutela del territorio. Un’ignavia che trova la sua incredibile consacrazione nell’appello rivolto alle cosiddette autorità competenti da cittadini e imprenditori locali in occasione della devastante alluvione dello scorso 12 agosto. Un evento che era nelle cose, tanto era stato largamente previsto e temuto, considerate le condizioni climatiche e del territorio, ma a cui ancora una volta si è arrivati impreparati.

Per cui, eccoci di nuovo qui a contare i danni, a proclamare lo stato d’emergenza, a chiedere, come bambini, aiuto e soldi a capocchia, a dire che tutto sommato ci è andata bene perché non c’è scappato il morto, a imprecare contro le autorità politiche e burocratiche assenti e responsabili dello scempio. Insomma, la solita lagna, dietro cui però c’è un fondo di verità, poiché mai come in questa occasione la colpa è davvero dello stato, che ha sempre sottovalutato il fenomeno del dissesto idro-geologico. Infatti, l’ignavia dei nostri enti pubblici è misurabile col tempo che continua a essere perso nella mancata messa in sicurezza delle zone a rischio che alimentano, da noi, il fenomeno alluvionale: il canalone di Cannata e il torrente Leccalardo.

E’ questa la vera ragione per cui ci allaghiamo e a dircelo è uno, l’imprenditore Natale Alonia, che da anni porta sulla propria pelle i segni della furia dell’acqua. “Quando si parla di dissesto idro-geologico – spiega Alonia – si pensa, nel nostro caso, a interventi straordinari e dai costi enormi, non sapendo, invece, che per porre rimedio a un disastro che va avanti da anni, che provoca danni per milioni di euro, basterebbe che gli enti competenti (Provincia, Regione, Consorzio di bonifica e quant’altri) tenessero puliti torrenti e canali di scolo, magari disotterandone qualcuno, e poi realizzassero due opere semplici e poco costose come il collegamento, di circa 150 metri, tra la vasca di decantazione del torrente Leccalardo, che sta alla fine di via Berlinguer, allo Scalo di Corigliano, e lo scolmatoio del canale Missionante, che sta alle spalle della ferrovia, e l’allacciamento del canale di Cannata allo stesso Leccalardo. Due opere che permetterebbero alle acque di defluire regolarmente verso il mare senza esondare e senza provocare alcun danno”.

Una strada semplice e poco costosa, dunque, che non è stata mai seguita e che pensiamo non sarà seguita neanche ora, nonostante la drammaticità del momento. Perché in fondo, qui al Sud, la normalità non piace: si vuole restare nell’emergenza, perché emergenze e stati di calamità naturali sono molto più convenienti della normalità: rappresentano un’ottima occasione per farci sommergere di milioni di euro in nome di quella cultura del piagnisteo che attesta uno stato anagrafico fatto d’infantilismo cronico, della convinzione di essere in una situazione di minorità, di dipendenza dallo Stato, da cui la licenza di piangere – come i bambini – se non si riceve abbastanza, se si viene trascurati, se non si viene “allattati” e foraggiati a sufficienza: il pianto come richiesta e denuncia di malesseri, come domanda e protesta. Ecco perché noi continueremo a sprofondare nel caos. Alla prossima alluvione, dunque, sperando, questa volta, di non dover contare i morti.

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