Editoriali

I Savoia e il massacro del Sud

{module Firma_redazione}E’ andato in scena, al Quadrato Compagna, lo spettacolo teatrale “1861. La brutale verità”, un’opera che racconta la feroce occupazione che il Sud ha subito, dai piemontesi, durante quel falso processo di unificazione che di conquista in conquista, con l’Unità d’Italia, ha separato definitivamente il Sud dal resto del paese, dando vita così alla cosiddetta questione meridionale.

Noi, per aggiungere un altro tassello a quest’opera meritoria di riscrittura della nostra storia, che non può certo essere solo quella raccontataci dai vincitori, pubblichiamo, qui di seguito, alcuni brani del libro dello storico Antonio Ciano dal titolo “I Savoia e il massacro del Sud”.

E’ un piccolo contributo che diamo, affinché i meridionali incontrando il loro passato, ricordandolo, andandone fieri possano finalmente ritrovare quella fiducia e quell’identità, perse proprio nel 1861, fondamentali per ricominciare a muoversi, a essere protagonisti, a proporre qualcosa di originale, di nuovo, per ritornare a progettare il loro futuro. E’ un grande rivolgimento culturale, perché toccando le coscienze dei meridionali, gli fornirà finalmente la capacità di liberarsi dalla sindrome terminale, da ultima spiaggia, remota allo Stato e alle leggi, nata con l’Italia unita. Non è un pensiero primitivo, superstizioso, ma è un pensiero simbolico, psicologicamente decisivo per mutare atteggiamento e predisporsi a un fruttuoso protagonismo.

Questo è il compito che attende i meridionali: ritrovare la loro identità, ripensarsi in termini culturali, a testa alta. Solo così riusciranno a riavere un senso, una funzione. Solo così riusciranno a tornare alla vita. E non sarà male se riusciranno anche a ripensarsi come entità storico-geografica, perché se in Italia non è mai esistita una Padania, intesa come nazione, di cui qualche settentrionale è giustamente fiero, è invece esistita una nazione meridionale, il Regno delle Due Sicilie, che stranamente è stata cancellata dalla nostra memoria, seppellita sotto una montagna di fango, spazzata via prima dalle menzogne raccontate sul Risorgimento e poi dal conformismo di tanta gente del Sud comprata e venduta. Ecco, è da qui che bisogna ripartire, senza vergogna alcuna.

 

Il Regno delle Due Sicilie nacque ufficialmente l’11 dicembre del 1816, quando con Statuto fu approvata tale denominazione che derivava dal fatto che “i Reali Domini al di qua (Citra) e al di là (Ultra) del Faro (Stretto di Messina)” si estendevano appunto al di qua e al di là della Sicilia. In precedenza, con decreto del 1° maggio 1816, la Patria meridionale fu divisa nelle seguenti Province: Napoli, come capoluogo e capitale (Napoli), Terra di Lavoro (Caserta). Inizialmente il Capoluogo era Capua, col decreto 15 dicembre 1818 lo divenne Caserta. Principato Citeriore (Salerno), Basilicata (Potenza), Principato Ulteriore (Avellino), Capitanata (Foggia), Terra di Bari (Bari), Terra d’Otranto (Brindisi), Calabria Citeriore (Cosenza), Calabria Ulteriore Prima (Catanzaro), Calabria Ulteriore Seconda (Reggio), Molise (Campobasso), Abruzzo Citeriore (Chieti), Abruzzo Ulteriore Primo (Aquila), Abruzzo Ulteriore Secondo (Teramo).

Il Regno prima dell’avvento dei Borbone non era in buono stato. Nel 1689 vi erano 2.718.330 abitanti, che diventarono 3.044.562 nel 1734, anno in cui il Regno passò a Carlo III di Borbone, che apparteneva a una dinastia ambiziosa. Così, già nel 1775, gli abitanti arrivarono a 4.300.000. Nel 1815, quando ritornarono i Borbone, la popolazione era di poco più di 5 milioni d’abitanti, per arrivare a 9.117.050 nel 1846. E, secondo alcuni storici, se ci fu questo notevole aumento della popolazione il motivo era da ricercare “nel benessere civile e sociale di cui godeva il popolo meridionale”. Infatti, prima che arrivassero i Borbone, nel meridione non si costruivano strade dai tempi dei Romani e i vicerè spagnoli avevano impoverito la popolazione esigendo sempre più tasse e balzelli e “senza investire in loco”. Le campagne erano abbandonate ed il bosco aveva invaso le terre fertili del Regno. I masnadieri erano i veri padroni delle paludi ed i pirati razziavano le coste, mentre i baroni inselvatichirono la vita civile e si impossessarono delle terre fertili. Il commercio non esisteva quasi più e non essendoci esercito né polizia nessuno più rispettava le leggi.

“I Borbone – ci racconta lo storico revisionista Antonio Ciano – incivilirono e resero innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, come diedero grande impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca e al turismo. Da ultimo tra gli Stati, il Regno divenne il primo d’Italia e tra i primi al mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820, ignote in Italia, fecero la loro prima apparizione a Napoli (nel 1839) con il tratto che congiungeva la capitale Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico, primissimi in Italia. Col benessere aumentava la popolazione in tutto il Regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono. Le strade erano molto più sicure di prima e, una volta eliminate le leggi feudali, si mise ordine in tutto territorio concedendo la terra a chi la lavorava e estirpando così le boscaglie che diedero spazio a frutteti e vigneti. Furono prosciugate le paludi e ripuliti e arginati fiumi e torrenti. Si mise anche ordine all’amministrazione pubblica e alla scuola, mentre fiorirono pittori, architetti, scultori, maestri di musica. Il teatro San Carlo di Napoli, primo al mondo, fu costruito in soli 270 giorni e la stessa corrente culturale fece nascere l’Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico. Ogni città, ogni villaggio doveva essere provvisto di scuole pubbliche. Ogni provincia doveva avere una scuola per uomini ed una per donne ove potessero apprendere le scienze primarie e le belle arti, e, per i nobili, esercizi di colta società. L’istruzione pubblica permise a tutti di imparare l’arte del leggere e dello scrivere, consentendo ai figli dei contadini l’accesso agli uffici pubblici, la carriera nell’esercito e soprattutto la presa di coscienza delle libertà individuali e dell’indipendenza di cui godeva il Regno delle Due Sicilie. Le spese per l’istruzione pubblica ammontavano a circa un milione di ducati all’anno.

“Lo sviluppo industriale fu travolgente – continua Ciano – e in venti anni raggiunse primati impensabili sia nei settori del tessile che in quello metalmeccanico con 1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d’Italia. Questo pullulare di industrie aveva un unico titolare: il Banco di Napoli, che, favorito dalle leggi del Regno e avendo grandi capitali da investire risparmiati dalle popolazioni meridionali, dava ricchezza rimettendo il denaro nel circuito locale. Nacquero industrie all’avanguardia e tecnologicamente avanzate dando vita a ferrovie e battelli a vapore e costruendo i primi ponti in ferro in Italia, opere d’alta ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore sul Garigliano. La navigazione si sviluppò in modo ammirevole tanto che il governo borbonico fu costretto a promulgare, primo in Italia, il Codice Marittimo creando dal niente una rete di fari con sistema lenticolare per tutta la costa. Le navi mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i mari di tutto il mondo e la sua flotta era seconda solo a quella del Regno Unito e così pure la flotta da guerra terza in Europa dietro quella inglese e quella francese (…). Gli operai lavoravano otto ore al giorno e guadagnavano abbastanza per sostenere le loro famiglie (…). Nel Regno la disoccupazione era praticamente inesistente e così l’emigrazione (…). Il turismo non era da meno delle altre industrie: la Sicilia, la Campania, il basso Lazio erano ricchissimi di reperti archeologici greci e romani che affiancati da musei e biblioteche diedero un impulso notevolissimo alla costruzione di alberghi e pensioni in quanto i viaggiatori aumentavano anno dopo anno. Sorsero così le prime agenzie turistiche italiane (…). Oltre a bonificare paludi e pantani per dare lavoro ad operai e contadini i Borbone bagnarono di cultura l’intero Regno: istituirono collegi militari come la Nunziatella, Accademie Culturali, scuole di Arti e Mestieri, Monti di Pegno e Frumentari. Le Università sfornavano fior di professionisti e scienziati e il Regno poteva vantare il più basso tasso di mortalità infantile in Italia. Erano sparsi sul territorio ospedali, ospizi e ben 9.000 medici. Lo Stato godeva di buona salute, il deficit era quasi inesistente ed il suo patrimonio aureo era invidiato da tutte le nazioni. Nel 1861, 668 milioni di lire oro contribuirono alla formazione del tesoro italiano e di questi ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie e solo 8 alla Lombardia e avendo buona amministrazione e finanze oculate la Borsa di Parigi, allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi (…). L’industria fu trainante perché controllata dallo Stato con oculatezza e assistita dal sistema bancario non centralizzato e procurò dapprima i beni di consumo che servivano alla comunità per poi cominciare ad esportarli (…)”.

Tutto questo, però, ai più resta ignoto, perché gran parte della nostra stampa e della nostra intellettualità, quella che per intenderci continua ad accostarci in maniera fraudolenta e negativa al Far West, ci racconta, sul Sud, solo banali menzogne. Nessuno mette in discussione la loro opinione secondo cui esistono due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca e una povera. Il problema, però, è che rispetto al 1860 i ruoli si sono invertiti. Nessuno ha il coraggio di dire che a quell’epoca il Nord era povero e che diventò ricco rubando al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Nessuno osa dire che in pochi mesi il governo piemontese distrusse secoli di cultura, di tradizioni, di storia, di libertà e di dignità meridionali.

Il Regno delle Due Sicilie, infatti, fu conquistato militarmente e senza dichiarazione di guerra. Era indipendente dal 1734 ed era guidato da un re italiano che parlava napoletano. Il suo popolo era ingegnoso, pacifico, prospero; la sua industria dava lavoro a due milioni di persone, l’agricoltura era fiorentissima, la flotta contava 472 navi, seconda solo a quella inglese, le riserve auree erano attive e non vi era deficit pubblico; la disoccupazione era zero. Il piccolo Piemonte, invece, aveva, nel 1860, un debito pubblico che ammontava alla somma di oltre un miliardo di lire di allora: una montagna di debiti, una voragine spaventosa che quattro milioni di abitanti non sarebbero riusciti a pagare in cento anni per l’arretratezza della sua economia montanara. Tale debito fu caricato sulle spalle dei meridionali. Infatti, con l’avvento dei Savoia, il Sud importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.

“La ricchezza del Regno delle Due Sicilie – ci racconta ancora Antonio Ciano nel suo libro I Savoia e il massacro del Sud – era dovuta alla buona amministrazione pubblica che dava autonomia impositiva ai comuni. Il Sud godeva di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire in oro, più del doppio di quello degli altri Stati d’Italia. Perciò il Mezzogiorno d’Italia ha bisogno di ritrovare la sua identità culturale, morale e politica. E ritrovando la sua dignità ha bisogno di liberarsi sia del colonialismo instaurato con l’Unità d’Italia sia dell’assurdo e pesante sistema fiscale, legislativo e amministrativo impostogli dal Piemonte sin dall’ottocento. Così come ha bisogno della sua libertà e della sua autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti, creandone le condizioni. L’Italia, non dobbiamo dimenticarlo, è stata unita con la forza, con una invasione militare che grida ancora vendetta. Il Piemonte, indebitatissimo, mise le mani sul ricco Regno delle Due Sicilie massacrando la sua popolazione, depredando ogni bene e ricchezza e scaricando i suoi debiti su tutte le popolazioni annesse allo stato sabaudo, con la pagliacciata dei plebisciti escogitati dal Cavour per giustificare agli occhi del mondo le sue guerre di occupazione. Il Sud li sta ancora pagando. Ha pagato sempre. Un milione di morti; 20 milioni di emigranti, la sua economia ricca e prospera fiaccata da dieci anni di guerra civile e dai latrocini dei nordisti che poterono anche usufruire delle rimesse continue che venivano utilizzate solamente al Nord. E tutto questo ebbe inizio il 13 febbraio del 1861 quando con la fortezza di Gaeta, cadeva eroicamente il Regno delle Due Sicilie.

“Ci vollero ben tre mesi per espugnare quella fortezza; tre mesi di sofferenze disumane; tre mesi di massacri perpetrati dal generale Cialdini. Ci vollero 160 mila bombe per radere al suolo la città tirrenica, in cui da eroe Francesco II, figlio di Ferdinando II e giovane re napoletano, resistette, insieme con la consorte Sofia, fino alla fine. Ma Gaeta, ultimo bastione del Regno, doveva capitolare subito e nel modo più ignobile, e questo sia per non lasciare buoni ricordi, tant’è che l’eroica truppa di re Francesco viene ancora ignobilmente definita “l’esercito di Franceschiello”, sia perché Cavour voleva realizzare l’Unità d’Italia prima che i debiti divorassero il Piemonte e la sifilide il suo corpo ormai irrimediabilmente malato. Il 13 febbraio del 1861 è una data che tutti i meridionali dovrebbero tenere a mente perché fu allora che ebbe inizio una resistenza senza quartiere contro gli invasori piemontesi che al Sud nessuno voleva. Nacque quel giorno infausto la questione meridionale. Il Sud ricco e prospero venne saccheggiato delle sue ricchezze e delle sue leggi; venne immolato alla cosiddetta causa nazionale. Il Regno delle Due Sicilie, unico Stato libero e indipendente da influenze straniere, fu dato in pasto agli affamati e barbari piemontesi”.

Il Piemonte, nel 1861, cominciò così la prima pulizia etnica della storia del nostro paese. I giornali del regime facevano passare, all’epoca, sotto silenzio gli eccidi che avvenivano, grazie a generali felloni e criminali di guerra, contro cittadini inermi. “Cannoni contro città indifese; – ricordano gli storici – fuoco appiccato alle case, ai campi; baionette conficcate nelle carni dei giovani, dei preti, dei contadini; donne incinte violentate, sgozzate; bambini trucidati; vecchi falciati al suolo. Ruberie, chiese invase, saccheggiati i loro tesori inestimabili, quadri rubati, statue trafugate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse per decreto. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871 un milione di contadini furono abbattuti, mai nessuna statistica fu data dai governi piemontesi. Nessuno doveva sapere. Alcuni giornali stranieri pubblicarono delle cifre terrificanti: dal settembre del 1860 all’agosto del 1861 vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati a fuoco, 3000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1428 comuni sollevati. Naturalmente questi dati erano sottostimati almeno di cento volte; le notizie, il ministero della guerra le dava col contagocce, in quanto all’estero doveva apparire tutto tranquillo, e mai giornalista fu ammesso a constatare ciò che stava accadendo nelle province meridionali. Il movimento rivoluzionario anti piemontese, chiamato brigantaggio, in realtà fu un grande movimento di massa, molti tribunali definirono i briganti partigiani, regi o legittimisti: difendevano la loro patria, il loro Re e la chiesa cattolica da un’orda che voleva colonizzare il Meridione (…). Le cifre che pubblicavano i giornali stranieri, come abbiamo detto, erano sottostimate; il governo piemontese aveva dato ordine di mettere a ferro e fuoco il Regno delle Due Sicilie e dette carta bianca ai vari comandanti militari per emanare bandi terroristici. L’esercito piemontese, anziché essere impiegato per prestare assistenza alle persone affamate da mesi di anarchia amministrativa, fu ammaestrato ed addestrato agli eccidi di popolazioni inermi, a rappresaglie indiscriminate, al saccheggio, alla fucilazione sommaria dei contadini colti con le armi in mano o solamente sospettati di manutengolismo (…). Noi diciamo semplicemente che i piemontesi erano dei criminali di guerra e non riusciamo a capire, come, ancora oggi, nelle scuole non si insegni ai ragazzi la vera storia del Risorgimento piemontese che per il Sud, in realtà, fu vera colonizzazione e sterminio di massa: arresti di manutengoli o solo di sospettati, fucilazioni, anche di parenti di partigiani, o solamente di contadini; stato d’assedio di interi paesi”. E il bello fu che alcuni ufficiali dell’esercito di occupazione, raccontarono, vantandosi, nei loro memoriali dei loro eccidi. Uno di questi era il generale Della Rocca che così scriveva: “…erano tanti i ribelli, che numerose furono le fucilazioni; da Torino mi scrissero di moderare queste esecuzioni, riducendole ai soli capi, ma, i miei comandanti di distaccamento che avevano riconosciuto la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile governare, se non incutendo terrore, vedendosi arrivare l’ordine di fucilare solo i capi telegrafavano con questa formula: arrestati, armi in mano, nel luogo tale, tre, quattro, cinque capi briganti” ed io rispondevo: “fucilate”. Poco dopo il Fanti, a cui il numero dei capi sembrava esagerato mi invitò a sospendere le fucilazioni e a trattenere prigionieri tutti gli arrestati. Le prigioni e le caserme rigurgitavano”.

Ebbene, l’unica colpa del laborioso e civilissimo Sud Italia era quella di essersi ribellato a quel Piemonte che voleva la Patria Una e indivisibile. In fondo i Borbone avevano commesso l’errore di conservare il loro regno integro; al punto che i piemontesi quando arrivarono trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni (e a tale proposito si veda l’eccidio dei comuni di Pontelandolfo e Casalduni), misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferirono tutte le sue ricchezze nel Piemonte pezzente e morto di fame. Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”. Dal 1860 al 1870 i nuovi pirati, ossia i piemontesi, riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al Nord; rubarono opere d’arte di valore inestimabile, quadri, vassoi, statue. Nelle casse piemontesi finirono circa seicento milioni ricavati dalla vendita dei beni ecclesiastici e altrettanti dalla vendita dei beni demaniali che i Borbone, da sempre, riservavano ai contadini ed ai pastori. Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, i contadini e gli operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano. Nel giro di pochi anni il surplus delle province napoletane, la ricchezza che avrebbe dovuto essere destinata alla riproduzione del ciclo economico e al rinnovamento del paese, fu trasferito nelle tasche di finti finanzieri e veri profittatori del regime nordista.

Una volta al potere quest’accozzaglia inasprì all’inverosimile gli animi dei contadini che reclamavano giustizia e ricevevano torti; reclamavano i terreni demaniali e venivano scacciati con la forza da quelle terre; chiedevano pane e gli si dava morte. A far traboccare il vaso fu il bando che rivedeva la presentazione dei soldati di leva e degli sbandati entro il 31 gennaio 1861. Ovunque fosse stato affisso si verificarono disordini ed incendi di municipi; iniziò così la caccia ai giovani e agli sbandati con rastrellamenti scientifici. Tutti i renitenti venivano fucilati sul posto. Cominciò così la resistenza armata contro gli invasori del Regno delle Due Sicilie. Gli ufficiali piemontesi, criminali di guerra, non badavano alla forma e alle abitudini dei meridionali; la fucilazione divenne una cosa ordinaria e cominciò così l’epopea della classe contadina, gli eccidi di intere popolazioni, gli incendi dei raccolti e delle città ritenute covi dei briganti. I militari piemontesi in nove mesi trucidarono 8968 contadini, senza pietà; eseguivano ordini criminali ed i superiori davano loro facoltà di razzia e di saccheggio. In poco tempo tutto il Sud insorse contro i nuovi invasori e pagò un prezzo altissimo in morti. Dieci anni di guerra civile, però, finirono per fiaccare l’intero assetto economico del Regno e dopo la sconfitta i meridionali furono costretti ad emigrare in massa dalla loro terra. Cominciò allora la colonizzazione che ancora oggi continua.

A Castellammare del Golfo e Alcamo (in provincia di Trapani, a trenta chilometri da San Vito Lo Capo) il primo Gennaio del 1862 il popolo scese in piazza al grido di “abbasso la leva, morte ai cutrara”, (i cutrara erano i borghesi) e si batté fieramente per una causa giusta e fu punito dai piemontesi. La nuova legge sulla leva distruggeva le famiglie e la loro economia. Tutti i figli maschi erano obbligati a prestare servizio militare e spesso mandati al Nord a prendere istruzioni per poi andare a sparare contro i loro fratelli nel Sud. Avvennero scontri sanguinosi, la sommossa fu spenta dopo tre giorni. Il 5 Gennaio del 1862 il supplemento del “Giornale Officiale di Sicilia” scriveva: “… Il sottoprefetto marciava con l’avanguardia di un battaglione. Giunto a Castellammare trovò già l’ordine ristabilito, ordinato il disarmo; seppe inoltre che sei dei colpevoli, presi colle armi e in atto di far fuoco sulle truppe, furono fucilati; di costoro tre non vollero palesare il loro nome, uno fu un triste prete imbarcatosi fra quella sanguinosa ribaldaglia… Ridottisi su per la sovrastante montagna i tumultuanti ne furono sloggiati con alcuni colpi di cannone”. La montagna a cui si fa riferimento è il Monte Inici alle cui pendici sorge Castellammare del Golfo, la cui punta a Ovest è Capo San Vito. Il Generale Umberto Covone incaricato di debellare i Briganti e i disertori di leva di quella zona così descrisse le operazioni militari in Alcamo e Castellammare: “Nella provincia di Trapani vi sono due grossi comuni che erano supremamente infestati: Alcamo capoluogo di circondario, e Castellammare. A Castellammare dopo la reazione provocata da odi di parte nel 1861 e macchiata da eccidi gravissimi, esistevano ancora latitanti circa 60 individui compromessi e sotto mandato di cattura…” – continua il Generale – “… Più di 300 renitenti di Castellammare, Alcamo e Monte San Giuliano, … si annidavano su quelle montagne (…); sei giorni furono impiegati a fare perlustrazioni faticosissime in quelle montagne. Non havvi casa che non sia stata perlustrata, non antro, non capanna che non fosse visitata (…). Noi abbiamo arrestato un certo numero di malviventi, ma se noi avessimo dovuti arrestarli tutti sarei ancora là”.

Il Sud era in fiamme; nemmeno le orde barbariche avevano osato tanto. Il Governo piemontese non si preoccupò di realizzare uno Stato che tenesse conto delle diversissime realtà locali, ma si limitò ad estendere a tutto il territorio nazionale lo Statuto Albertino e tutta la legislazione dello stato sabaudo. Si parla a questo proposito di “piemontesizzazione” che fu vissuta nel Mezzogiorno come una vera e propria colonizzazione. Oltre tutto, ciò si manifestava con uno Stato inefficiente, centralista, burocratizzato, oppressivo ed in molti casi anche corrotto e criminale, che difficilmente poteva offrire ai suoi cittadini motivo di essere orgogliosi della sua esistenza, o desiderio di appartenenza, di essere identificati con esso. Il Piemonte stava massacrando un popolo, stava distruggendo l’economia del Meridione, stava imponendo con la forza il nuovo ordine. Così, per molti la risposta fu la fuga nell’illegalità e una vita da brigante. Ma chi erano in realtà i briganti?

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico, sconfitto dall’esercito dei “volontari” garibaldini, il Meridione veniva annesso di fatto agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all’appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e di grande squilibrio sociale. Nella vasta zona dello Stato pre-unitario, popolata da oltre 7.000.000 di abitanti, quasi un terzo della popolazione globale italiana dell’epoca, la distribuzione della ricchezza, che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola, era iniquamente spartita fra un ristrettissimo numero di latifondisti, mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame. Le premesse per una rivolta popolare erano già nell’aria, fomentate dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere. Infatti, nell’autunno del 1860 una violenta guerriglia sfociò in tutta la parte continentale dell’ex Regno delle due Sicilie, con una diffusione massiccia nell’area compresa tra l’Irpinia, la Basilicata, il Casertano e la Puglia.

Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l’esercito piemontese. In un primo tempo la matrice della ribellione sembrava essere circoscritta a fattori di natura prettamente politica e configurarsi nella lotta armata contro l’oppressore, ma quando la giurisdizione del Regno d’Italia s’insediò ufficialmente, la vera causa della sollevazione popolare si rivelò come il prodotto di un incontenibile disagio sociale.

Il vecchio regime borbonico era caduto per l’iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l’espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse di diseredati.

Lo Stato forte dell’Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l’insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. A tutto ciò andava aggiunta l’incapacità da parte della Destra conservatrice di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante dell’esplosione di quel gravissimo fenomeno di rivolta popolare noto come brigantaggio meridionale.

La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell’esercito regolare in cinque anni fece un’ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che tra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento o passati per le armi 5212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5044. Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio e fu determinante al riguardo la “Legge Pica” del 15 agosto 1863, che sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei banditi. Venne proclamato lo stato d’assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti.

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