Politica

Libera droga in libero stato

{module Firma_Anton Giulio Madeo}Uno m’incontra per strada e mi fa: “ma tu, da che parte stai?”. Dalla parte della libertà, rispondo. Il tizio, però, dopo avermi guardato in maniera un po’ sciroccata, mi spiega che lui più che alla guerra in Ucraina si riferiva alla questione della liberalizzazione della cannabis e al quesito referendario bocciato dalla Corte Costituzionale, per cui vorrebbe sapere se appartengo alla schiera di quanti vorrebbero la liberalizzazione delle droghe, o a quella di chi pensa che ogni droga sia dannosa e che bisogna in tutti i modi estirpare questa piaga sociale. È ovvio, gli spiego, che essendo un convinto libertario, non posso che appartenere alla prima categoria, cioè a quelli che le droghe le vogliono libere, ma non in ragione di argomenti utilitaristici, nel senso che il proibizionismo ha fallito perché non è stato in grado di togliere dal commercio le sostanze assunte dai tossicodipendenti, favorendo così le organizzazioni criminali e marginalizzando ampi settori della società. Nossignore. Gli dico che io sono antiproibizionista per ragioni di principio, che mi spingono a guardare al diritto naturale, e cioè al fatto che la guerra alla droga poggi sulla violazione di alcuni cardini fondamentali di una società libera, in cui combattere il consumo delle droghe significa allontanarsi dalla tradizione giuridica, che ha sempre distinto tra vizi e crimini. Quanti offrono sul mercato un prodotto o un servizio (che si tratti anche di droga o prostituzione) non operano in maniera aggressiva. Il loro comportamento può essere moralmente riprovevole senza che questo debba comportare una qualche repressione. In fondo, Dio ha creato gli uomini liberi e questa loro libertà va limitata solo se nell’agire dei singoli si rinviene una qualche violenza effettiva su altre persone. Per giunta, la lotta alla droga è una decisa limitazione dei diritti di proprietà (di chi vende e di chi acquista), accompagnata dall’imporsi di un potere “paternalistico” che si sente autorizzato a definire ciò che è bene e ciò che è male. E questo espandersi della funzione del potere e del sistema legale finisce per togliere spazio alle agenzie morali di formazione spontanea e libera accettazione. Tanto più lo Stato definisce qual è il confine tra il bene e il male in tema di droga, quanto più è normale che esso si candidi a decidere anche quale deve essere la nostra visione della vita, della sessualità, della famiglia, della spiritualità. In questo senso sono proprio quanti non guardano allo Stato come a una divinità che devono nutrire più di una perplessità di fronte all’autoritarismo di chi impedisce che un proprietario ceda sostanze in suo possesso a un altro proprietario. Invece che pretendere che due adulti non commercino tra loro qualche spinello, va difesa con forza l’autorità familiare, perché è giusto che un padre pretenda che nessuno ceda al proprio figlio (minore) sostanze che egli non vuole che consumi. In fondo, la lotta dello Stato al libero consumo della droga muove dalla dimenticanza del principio fondamentale della cultura liberale, e non solo di quella: l’idea che l’altro va rispettato e che solo la necessità di impedirgli che aggredisca qualcuno ci autorizza a usare la violenza nei suoi riguardi. Lo Stato ci considera soggetti da organizzare, manipolare, plasmare a suo piacere, ma una cultura centrata sulla dignità della persona non può accettare questa prospettiva e ciò che ne discende.

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