Editoriali

La sindrome del gregge

{module Firma_Anton Giulio Madeo}Arriva l’estate e come ogni anno mi chiedo perché i ragazzi di oggi abbiano l’abitudine di fare le cose in massa, tutt’insieme. Per quale motivo partono tutti alla stessa ora, frequentano tutti gli stessi locali, si affollano tutti davanti l’ingresso di questi locali per entrare e ascoltare tutti la stessa musica. Per quale motivo non scelgono il locale più bello, più elegante, più comodo, meno frequentato (magari per conversare con gli amici o appartarsi con una ragazza) e dove poter ascoltare la musica migliore.

Una risposta a queste domande forse c’è, è sta tutta in quella condizione sub-umana, che qualcuno ha definito “sindrome del gregge”, in cui sono costretti questi ragazzi, i quali, per ragioni soprattutto educative e formative, non avendo mai avuto autonomia di pensiero e uno spiccato senso critico, sono condizionati, nelle loro scelte, da criteri molto elementari. Ragionano, senza sforzarsi troppo, più o meno così: se tutta la gente va in quel locale vuol dire che quello è il locale più alla moda, quindi il migliore, e va assolutamente frequentato: guai a non esserci.

E’ così che si formano le mode. Lo diceva anche un noto filosofo: “L’essere umano desidera solo ciò che desiderano gli altri”. Da qui si può comprendere come siano facilmente manipolabili le menti di questi ragazzi. Basta poco: un ottimo P.R. e un po’ di passa parola sui social e il gioco è fatto.

Ma non è tutto. C’è da fare qualche riflessione anche su come questi ragazzi si comportano all’interno di questi locali. Si muovono come dannati al ritmo forsennato di una musica (ma sarebbe meglio dire di un rumore) assordante oppure s’incollano l’un l’altro, fondendosi quasi come fossero un sol corpo, quasi come se volessero sfuggire a quella musica assordante. Quindi, non più individui, ma massa informe. Una specie di blob maleodorante, che inghiotte l’individuo facendogli perdere tutte quelle caratteristiche che lo rendono unico, a cominciare dalla parola, senza la quale il pensiero non trova più la sua naturale forma di espressione: il linguaggio. Perciò, a vederli, questi ragazzi, sembrano dei dementi, degli sballati in preda a chissà quali droghe. Invece niente. Oddio, nella massa c’è pure chi si sballa sul serio, ma il più delle volte il rimbambimento dei ragazzi non è dovuto alla droga, ma alla loro nullità, al vuoto che si portano dentro, alla loro paura di vivere, di crescere, all’ansia di affrontare da soli quella feccia che si chiama mondo, di diventare uomini veri, maturi, di saper dire di no. E’ forse un modo per esorcizzare la paura dell’ignoto, che è poi quell’età adulta che rende responsabili, capaci di pensare con la propria testa, di prendere decisioni, di agire, di scegliere, di andare per la propria strada, quindi essere autonomi, disciplinati, coraggiosi, competitivi, forti.

Ecco, forse, è proprio questo che li spinge a stare intruppati. Affogandosi nel gruppo cercano di lenire il dolore della vita. Infatti, nel gruppo non sono mai soli, non si fanno mai male; il gruppo è una specie di grande ammucchiata, dove non si riconosce nulla, dove si cerca quell’abbraccio che fa sentire a casa, che fa ritrovare se stessi: utile a scacciare ansia e depressione, dolori e amori, poiché in esso si fluttua insieme, per cui ci si sente sicuri, forse non amati ma di sicuro protetti; lì si trovano conforto, aiuto, compassione, complicità, come nella pancia della mamma, il luogo più bello, più pulito, più puro, ma anche un luogo iperprotettivo che prolunga l’adolescenza per anni e anni, che castra il carattere senza formare e senza far diventare uomo, che è diventato un po’ il simbolo di una società mammizzata, che spostando sempre più indietro le lancette dell’orologio biologico pare un elemento indispensabile per proteggere questi ragazzi da un mondo considerato troppo violento, brutale, nemico, ostile, competitivo, aggressivo. Purtroppo sappiamo che non è così. Bisogna cambiare prima che la vita cambi noi e il mondo si dissolva.

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